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Cosa ti piace del cibo che mangi, o del tuo piatto preferito? Bella domanda.
Certo, i più golosi non rinuncerebbero mai a patatine fritte in quantità esagerate d’olio, mentre i patiti delle diete non si faranno mai mancare frutta e verdura, ma aldilà delle preferenze personali ci sono anche importanti fattori che sono trasmessi a livello culturale circa l’alimentazione.
“Alimentarsi – dice il professore di psicologia sociale Marino Bonaiutoè infatti certamente un fattore vitale, ma intorno al cibo ruotano da sempre anche aspetti connessi al piacere, alla socialità, alla convivialità”.

23 parametri. Questo il numero dei fattori che influenzano le scelte agroalimentari. Perché la scelta di un alimento e il suo successo – piuttosto che il suo insuccesso – sono anche una questione di reputazione, e a rivelarlo è uno studio accademico condotto dall’Università Sapienza di Roma grazie al finanziamento del Gruppo Nestlé nell’ambito del progetto Axìa.

Lo studio e il modello messo a punto, dopo ben tre anni di lavoro, dimostrano che anche i prodotti alimentari hanno una loro “reputazione” da guadagnare e da mantenere, e che essa è concretamente misurabile ed è frutto di una serie di fattori. A seguito di questa scoperta è, infatti, stata creata la Food Reputation Map, uno strumento che consente di misurare la reputazione di un qualsiasi alimento e produzione agricola.
Suona strano, no? Solitamente il concetto di reputazione si lega a persone e ad altri agenti sociali, poco ai prodotti, ma ancora meno al singolo alimento, sia esso inteso come singolo alimento o come prodotto finito di una lunga ricetta.

Eppure la reputazione alimentare esiste. Ed è la rappresentazione precisa di opinioni che ogni persona possiede delle caratteristiche attuali e presenti di un determinato cibo.
Il funzionamento è semplice: la Food Reputation Map basa la sua validità sull’analisi di dati raccolti su un totale di 4.770 italiani ed evidenzia tre macroaree di reputazione, 6 indicatori sintetici, per un totale di 23 parametri specifici che influenzano la nostra percezione nei confronti di un preciso alimento, evidenziando così quelli che possono essere considerati i punti chiave che ne stimolano – o scoraggiano – l’acquisto e quindi il relativo consumo.

Si tratta di aspetti connessi all’essenza del prodotto, agli effetti culturali, economici, ambientali, fisiologici e psicologici di un prodotto. “Si tratta del primo metodo scientifico – ha precisato il docente precedentemente citato – per delineare punti di forza di un prodotto alimentare in vista dell’approdo sui mercati esteri”.
Si accresce quindi la competitività dei prodotti “Made in Italy”, perché il nostro è lo Stato europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità (22%), seguito dalla Francia con il 17%, ma che – evidentemente – non sa sfruttare bene i suoi prodotti, perché esporta solo l’11% della propria produzione, contro il 19% dei cugini d’oltralpe.
Si punta sul “Made in Italy”, ancora.

[Credit: LaRepubblica]