Che dietro alla produzione di abbigliamento e scarpe si nasconda il dolore e lo sfruttamento di bambini e persone in gravi condizioni umanitarie non è una novità.
È terribile, è disumano, è intollerabile, eppure in ogni nostro passo, così come in ogni nostro outfit c’è un po’ di quello che siamo i primi a condannare senza fare niente.
Diverso è il discorso per tre blogger norvegesi che, nel 2014, hanno vissuto in prima persona la realtà della produzione di massa in Cambogia, adattandosi alle condizioni che gli operai sono costretti a subire nei laboratori tessili ogni giorno della loro vita. Condizioni che si ripetono da anni anche in Bangladesh, Cina e in Turchia, appunto.
Con grande dispiacere ci siamo resi conto che la questione continua e nemmeno noi siamo disposti a fermarci.
Prima di continuare è utile informare i lettori che, spesso, la casa madre e la produzione non collimino nelle intenzioni e che i fornitori o i titolari di produzione abbiano poco o nulla a che fare con la politica del marchio, che dovrebbe sì verificare le condizioni dei suoi lavoratori – anche se indiretti – ma che, sovente, per questioni logistiche non riesce a certificare il regolare svolgimento legato alla produzione.
Vediamo di far chiarezza, però, sui brand coinvolti e sulle manovre che gli stessi hanno deciso di adottare, una volta venuti a conoscenza delle pratiche alienanti in uso nelle fabbriche turche.
Se possiamo spezzare una lancia per i due marchi sotto accusa per sfruttamento, H&M e Next, questi sono stati gli unici a denunciare pubblicamente la presenza di rifugiati e bambini siriani all’interno dei laboratori tessili, ma molte altre sono le firme che ne usufruiscono senza nulla dichiarare – almeno stando alle parole della Bhrrc – come Burberry, Adidas, Marks & Spencer, Topshop e Asos.
Il report della ong “Business and Human Rights Resource Centre” (Bhrrc) ha dichiarato che, nonostante lo smascheramento delle condizioni presenti oggigiorno nelle fabbriche, sono ben poche le marche disposte a prendere provvedimenti seri e diretti al riguardo.
Ricordiamo che la situazione vede centinaia di migliaia di rifugiati siriani – tra i quali adulti e bambini – sfruttati nell’ambito della produzione di abbigliamento sia per marchi meno cari, che per marchi più facoltosi.
Tralasciando il numero di ore lavorate, che va dalle 16 alle 18 al giorno, e che quindi esclude la possibilità di un riposo effettivo, ciò che più impressiona sono i requisiti sanitari del tutto inesistenti e il ripetersi di violenze fisiche che si verificano costantemente, senza che nessuno muova un dito; oltre al salario che non supera i 100€ mensili.
Riuscite a immaginare da soli cosa voglia dire scappare da un conflitto spaventoso, per essere “accolti” in questa maniera del tutto disumana. Affermare di cadere dalla padella alla brace è ben poco.
Sulla base di queste terrificanti scoperte, la Bhrrc il mese passato ha richiesto a 28 grandi marchi di verificare le realtà dei loro fornitori e mettere in pratica i provvedimenti per fermare questo scempio umano.
Di queste, come già abbiamo detto, solo H&M e Next sono state disposte a prendere provvedimenti seri, quali il reinserimento dei minori in campo scolastico, con il conseguente supporto economico alle famiglie coinvolte, ma per il resto dei concorrenti tutto tace.
A meno di Primark, che ha ammesso di aver trovato siriani adulti lavorare per i suoi fornitori, tutte gli altri marchi come Adidas, Burberry, Nike e Puma hanno comunicato di non aver alcun siriano tra gli operai impiegati nella produzione. Ci crediamo?
In seguito anche ai colloqui avvenuti con l’Unione Europea lo scorso Gennaio, la Turchia ha garantito di concedere ai profughi e ai rifugiati la base per delle condizioni di lavoro a norma, così da debellare il nero fatto di sfruttamenti, paghe irrisorie e manodopera minorile.
Nella speranza che un giorno tutto questo possa finire, vi invitiamo a seguire le vicende siriane, perché tutti sappiano ciò che quest’epoca ha malvagiamente riservato per loro.