Le superstizioni, si sa, sono dure a morire: fra queste la più difficile da estirpare è senz’altro quella relativa alla sfortuna del gatto nero. All’origine della falsa credenza secondo cui il passaggio di un gatto nero è indiscutibile presagio nefasto ci sarebbe più di una spiegazione. L’una risale al tempo in cui il principale mezzo di locomozione era la carrozza: lungo i percorsi poco illuminati, infatti, i gatti neri – proprio in virtù del loro colore scuro – risultavano poco visibili e spesso alcuni di loro, incrociando i cavalli al trotto, finivano per spaventarli sino a farli imbizzarrire, provocando così spiacevoli incidenti.
L’altra spiegazione è, invece, riconducibile all’epoca della pirateria: nel corso delle loro navigazioni, difatti, i pirati turchi solevano ospitare a bordo delle proprie navi (per assicurarsi che le loro stive non fossero infestate dai topi) dei gatti neri che, una volta attraccata l’ancora nei pressi della città da saccheggiare, erano liberi di circolare sulla terraferma, andando così a rappresentare, per quanti li incontrassero, l’infelice premonizione di un pericolo imminente. Un’aura di negatività, questa, che divenne ancora più marcata durante il Medioevo, quando cioè i fautori del Cristianesimo intrapresero l’impietosa opera di annientamento di qualsiasi culto pagano – tra cui religioni che, come quella di Iside, facevano del gatto un vero e proprio oggetto di venerazione.
Da quel momento fino al Settecento inoltrato i gatti neri, insieme a quanti si curavano di loro, furono vittime di un’autentica persecuzione che si tradusse in scomuniche papali ufficiali, prima, e poi in irrevocabili condanne al rogo, che colpirono tanto i poveri animali, quanto i loro padroni, in quanto presunti maghi e streghe. Fu solo con l’avvento dell’Illuminismo che si concluse questo ingiustificato massacro: dimostrato scientificamente il valore della pulizia – incarnato pienamente da ogni esemplare felino -, si capì allora che la proliferazione di malattie epidemiche come il tifo e la peste si doveva, piuttosto, all’incessante riproduzione dei topi, ulteriormente favorita dalla quasi totale estinzione dei loro atavici antagonisti.
A partire dall’Ottocento, dunque, il gatto venne reintrodotto nei salotti aristocratici e borghesi, e da quel momento in poi non ha più smesso di rappresentare uno degli animali domestici più amati, soprattutto dalle donne, che trascorrendo la maggior parte del tempo in casa, si sono venute a configurare quali loro più fidate compagne. E se qui da noi ci sono voluti secoli prima che la reputazione del gatto nero venisse riabilitata, altrettanto non è accaduto in altri ambiti culturali: nell’Europa del Nord, e in particolar modo in Inghilterra, l’apparizione di un gatto nero è da sempre considerata di buon auspicio, a tal punto da aver portato i marinai di un tempo a rifiutare il proprio incarico qualora non ve ne fosse stato almeno uno sulla nave su cui si sarebbero dovuti imbarcare.
Una credenza diametralmente opposta alla nostra, molto diffusa anche tra i pescatori giapponesi che sono tuttora fermamente convinti che i gatti a tinta unita – siano essi neri, bianchi o marroni – abbiano il potere di allontanare il maltempo e di proteggere le anime vaganti dei naufraghi. È proprio la relatività di simili superstizioni che dovrebbe, perciò, spingerci ad adottare un approccio decisamente più obiettivo nel rapportarci ad esse: e chissà se, un giorno, a farcela scampare bella non potrà essere – a dispetto di ogni diceria – un temibile gatto nero.