Tutti ne parlano, nessuno sembra sapere esattamente cosa sia, come trovarla e dove. Una leggenda metropolitana, fino a quando non arriva l’amore, una proposta di lavoro, una bella notizia: allora sì, lo vogliamo urlare al mondo che la felicità esiste.
E basta poco a ritrovarla, magari anche per caso, come è capitato a me . Può bastare anche un laboratorio di cui lei è protagonista. “Un’idea di felicità-Laboratorio per il futuro“, questo è il nome della tre giorni, tenuta in seno ai Dialoghi di Trani e organizzata dall’associazione Faber. Così l’ho scoperta e riscoperta, la felicità. Così l’ho idealizzata, identificata, immaginata, toccata. Così l’ho condivisa.
“Cosa saresti se fossi la felicità?“- mi è stato chiesto. Ho chiuso gli occhi e ho risposto, sicura: “Sarei una penna che scrive storie“. E in fin dei conti mi ritrovo qui, a raccontarvela questa storia. La storia di come ho capito che la felicità più che un obiettivo, un risultato, un premio, è un modo d’essere. È una scelta quotidiana.
Così andrò, felice, a elencare quello che ho scoperto su di me prima e sulla felicità poi. Perché a me è servito qualcuno che dicesse “chiediti come stai in questo momento” tanto quanto io spero serva a voi che state leggendo.
Ridi
“Presentati al gruppo con nome e cognome e dopo prova a ridere“. Una richiesta spiazzante, insolita e a dir poco imbarazzante. Insomma, come si può ridere senza motivo o senza almeno un disturbo psichico degno di nota?
“Provaci e basta“. E così il primo tentativo: una risata forzata, inibita, finta, imbarazzata. E poi l’imbarazzo che diventa contagioso e buffo, che genera altre risate, vere. E la tua, quella finta che si trasforma in lacrime di gioia.
Il nostro corpo non riesce a distinguere la risata vera dalla risata finta, è stata questa la scoperta. Così la sensazione di benessere, che sia spontanea o forzata, quella risata ce la libera dentro. Lascia che esploda in ogni cellula e il risultato straordinario è una persona che sta bene, per qualche minuto o per tutta la giornata.
La risata ha un potere enorme e non costa nulla. Ed è il primo passo verso la felicità.
Liberati del superfluo
“La vita va affrontata a mani vuote. In caso di tempesta, come fai a reggere il timone con due valigie? E se fa bel tempo, sei più leggero a testa sgombra” – scrive Emmanuel Gallot-Lavallée in Clown Celeste.
Siamo partiti da questa riflessione, per il secondo esercizio. Presentarsi agli altri, solo con nome e cognome. “Il mio nome è Anita Casalino” – in apnea e con i pugni chiusi. Ma ero in dolce compagnia. Le valigie degli altri erano mani sudate, spalle basse, deglutizione, tic, iperventilazione.
Cose normali, a cui non facciamo neanche caso. Cose che in realtà sono le mille maschere che poniamo tra noi e gli altri, per apparire al meglio, strafighissimi nel nostro alone di mistero. Questo è il superfluo che aggiungiamo al “noi stessi” di base. Riconoscerlo è il primo passo per mollarlo via.
Un respiro profondo, prima di parlare, prima di agire e poi, in scena.
Senti te stesso, senti gli altri
Ci siamo presentati ad un gruppo di persone. Ma cosa succede quando l’interlocutore è uno? Come rifuggiamo il contatto? Neghiamo parti del corpo, tendiamo la mano evitando uno sguardo diretto, non ricordiamo il nome dell’altro perché siamo troppo occupati a costruire la nostra immagine, facciamo un passo indietro. Siamo assenti, in parole povere.
Toccare fisicamente chi abbiamo di fronte, sentire la sua energia, parlare con gli occhi: così si è presenti, così si crea una storia, anche se brevissima, con l’altro. Perché la comunicazione vera non ha parole. Quelle usiamole dopo.
E poi chiediamoci, “cosa mi ha lasciato questo incontro? Quale sensazione? Come mi sento adesso? Cosa trasmetto?“. Domande piccole, che ci concederanno risposte inestimabili.
Agita il sedere
“Provate a cantare col culo” – ci è stato detto. Sarebbe stato più facile chiedermi di arrivare puntuale ad un appuntamento o rinunciare al dessert dopo pranzo. Ma non sempre quello che si crede complicato lo è.
Sulla base di Micheal Jackson – riposi in pace – abbiamo agitato, a gruppi di cinque, il sedere. Eravamo buffi e ridicoli. Abbiamo esposto insieme la nostra goffaggine e la vulnerabilità che ne deriva. Ne abbiamo riso. Abbiamo riso di quel poliziotto, Flick, che si trova nella mente di ognuno e che interviene automaticamente a giudicarci e a giudicare gli altri. Abbiamo condiviso la gioia e sentito il nostro corpo.
Secondo le culture tribali, il centro delle emozioni si trova proprio nella zona del sedere. Confluiscono tutte lì: gioia, rabbia, delusione, tristezza, nervosismo, serenità. Dominare quell’area anatomica, lasciare che si scarichi, trasformare le emozioni in movimento: sarà incredibile, ma fa stare bene. E fa ridere a crepapelle.
Idealizza la felicità, costruiscila, comprendi cosa le manca
Spesso la identifichiamo in qualcuno o qualcosa, la felicità. Ma la più grande scoperta che ho fatto è che la felicità siamo noi. Così: “Immagina la felicità. Cosa saresti?” – Una nuvola, un sole, il mare, una stella, è venuto fuori da tutti. “Bene, ora disegnala la tua felicità“.
Così è nato il mio disegno, un libro con una penna e su una facciata, scritte in rosso, le cose che vorrei nella mia vita, quelle che compongono i miei sogni: amore, passione, gentilezza, famiglia.
La mia idea di felicità era lì, di fronte a me. E una volta costruita, la domanda che mi ha dato a sua volta LA risposta è stata: “cosa manca al tuo disegno?“. Mancava una mano che reggesse la penna. Mancava qualcuno che leggesse. Mancava una pagina bianca.
Il coraggio di guidare il mio percorso, qualcuno che mi ascolti, un nuovo inizio. Questo ostacola la mia felicità. Ed è bastato un disegno o forse solo un po’ di tempo, quello che non ritaglio mai, per rifletterci su.
La consapevolezza rende felici.
La perfezione non esiste
Ultimo step per provare a essere felici? Non farsi promesse. La promessa è l’anti qui e ora. Non prometterti di non rifare un errore. Prova a farne uno diverso.
“Quante persone perfette conosci?” – è stato chiesto a una combattiva e stacanovista signora.
“Nessuna” – ha risposto lei.
“E vorresti davvero essere l’unica?”
Siamo tutti imperfetti, viviamo nei tentativi di felicità. Il massimo che possiamo fare è augurarci un tentativo diverso, se il precedente non ci ha resi felici. E poi alla fine arriva, il benessere.
Scottarsi fa parte del gioco e la missione di questo videogioco è vivere gli anni che abbiamo a disposizione, nella maniera più serena possibile. “Siamo quello che siamo e non possiamo cambiarlo. Possiamo cambiare quello che facciamo“.
È stato augurato a me, io lo auguro a voi. Vi auguro di fare errori diversi.