lunedì, 15 Dicembre 2025

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È l’ora del tradimento

Credit Photo: www.curiosandoinrete.com

È l’ora del tradimento

Se è vero che il tradimento arriva quando meno te lo aspetti, è altrettanto vero che ha degli orari ben precisi.
AshleyMadison. com, sito di incontri extraconiugali, ha stabilito le fasce orarie in cui pecchiamo di infedeltà. Lo ha fatto intervistando 3.000 tra gli utenti italiani iscritti al sito.

I risultati?

Per il 35% degli uomini e il 37% delle donne d’Italia, il momento migliore della giornata per tradire il proprio partner è la sera, tra le 19 e le 22.
Si tratta di quella fascia oraria che si presta, infatti, ad ogni tipo di scusa: la partita di calcetto, l’impegno di lavoro improvviso, l’amica che chiama all’ultimo minuto perché in preda ad una delusione d’amore. Sono queste le scuse perfette per raggiungere l’amante e concedersi una serata di passione.

Il 29% degli uomini intervistati e il 31% delle donne dichiara, invece, di tradire durante la pausa pranzo: tra le 13 e le 15.
Si tratta di coloro che scelgono il loro amore occasionale sul posto di lavoro. Così, invece di consumare il pranzo, dedicano le loro migliori attenzioni al collega prescelto.

A sorpresa scopriamo di essere un popolo di mattinieri.
Un buon 17% maschile contro il 12% femminile tradisce tra le 7 e le 9 del mattino.
A quel punto le scuse variano dal bisogno di fare jogging, al capo esigente e che ti costringe agli straordinari.
C’è chi preferisce la tarda mattinata.
Il 14% delle italiane e il 9% degli italiani dichiara di tradire tra le 10 e le 13.

La notte a quanto emerge da questo sondaggio siamo tutti più fedeli.
Costretti dall’altra metà della mela a restare in casa? Fatto sta che solo il 6% delle donne e il 10% degli uomini tradisce al calar della notte.

Bere tanto migliora lo status sociale

sceltedivino.it

Bere spesso – e tanto – aiuta a migliorare il proprio status sociale. Sia per gli uomini che per le donne.

A rivelare questa sorprendente scoperta è la dottoressa Tara Dumas, ricercatrice del Centre for Addiction and Mental Health che ha sede in Canada. La scienziata e il suo team hanno studiato un campione di 357 giovani adulti provenienti da Toronto in un periodo compreso fra il maggio e il giugno del 2012.

La ricerca ha riguardato una questione molto particolare: quanto gli episodi di sbronze – correlati anche al numero di drink e alla frequenza con cui esse capitavano – hanno influenzato l’opinione dei soggetti riguardo i loro amici.

Il risultato? Più un uomo beve drink pesanti e più è visto come socialmente rilevante. Allo stesso tempo più una donna beve cocktail in generale e più il suo status symbol ne giova in termini di crescita di popolarità e importanza.

Questa ricerca suggerisce dunque come uno posizione sociale elevata è spesso associata a modelli di comportamento rischiosi, come quello del bere molto e cocktail forti. Questo perchè il farsi vedere esperti bevitori cambia l’ottica e il modo di valutarci di chi ci sta di fronte: non dare il minimo segno di cedimento anche dopo aver sorseggiato 5 drink è sintomo di grande controllo di se stessi e di superiorità sociale.

E questo porta ad un maggior rispetto e ad una migliore considerazione da parte di tutta la comunità di amici e conoscenti. Almeno questo è quanto ha rilevato la ricerca della Dumas. Perchè poi – a pensarci bene – lo status sociale di un individuo dipende da ben altri fattori piuttosto che dalla sola capacità di reggere bene l’alcol.

Il mondo visto attraverso i cappelli (FOTO)

twitter.com

Ogni paese ha la sua storia, la sua cultura, le sue feste e le sue tradizioni. E anche i suoi cappelli.

Il sito “Booking Venere” ha realizzato un’infografica con 80 cappelli molto significativi: infatti ogni copricapo rappresenta un determinato paese.

Nell’infografica sono raffigurati moltissimi cappelli, tra cui alcuni molto riconoscibili: è presente il chepi francese, ma anche il sombrero messicano e la kefiah saudita. E come non distinguere, tra gli ottanta berretti, il “Rastacap” jamaicano?

Numerosissimi cappelli sono facilmente individuabili proprio perché rappresentano fortemente la cultura e l’essenza di un paese. Un tempo i diversi cappelli, copricapi e berretti indicavano la funzione, il ruolo e il lavoro di una persona, oltre che – naturalmente, come succede ancora oggi – l’appartenenza sociale.

I disegni del sito “Booking Venere” sono stati creati per fare un viaggio virtuale indietro nel tempo e nel mondo, per capire al meglio le usanze dei differenti luoghi e delle diverse nazioni.

Ma non tutti i copricapi raffigurati sono così famosi. Chi conosceva, prima di vedere queste immagini, il “Daka Thopi” del Nepal? E il “Aso Oke hat” della Nigeria? Pare proprio che questi siano nomi sconosciuti proprio a tutti.

Questa infografica, nonostante sia molto carina e divertente, è anche abbastanza limitata perché sembra fondata su alcuni stereotipi.

I pregiudizi sono tanti e vengono soprattutto dagli stranieri. La Germania, per esempio, è vista come il paese degli “ubriaconi”, che passano le loro giornate bevendo birra e mangiando würstel e crauti. L’Italia, invece, da molti è considerata il paese della mafia, anche se viene associata a moltissime cose molto più caratteristiche, come la moda e il mangiar bene.

Gaza, storie di bambini sopravvissuti

Israele e Palestina.
Un conflitto che dura ormai da 67 anni.
Un conflitto dall’aspro sapore di tragedia senza fine. Morti, feriti, disperazione, terrore, distruzione e odio.
Questo è Gaza.

La stessa storia che si ripete negli anni: l’attacco “Piombo Fuso” nel 2008, quello nel 2012, e poi l’operazione militare in corso. E le vittime sempre loro: gli innocenti, soprattutto i bambini.
Si tratta di una tragedia racchiusa nei volti, negli occhi, che ormai hanno perso la speranza verso il mondo, nelle storie che hanno da raccontarci.

La quasi totalità dei 950.000 bambini gazawi soffre di sintomi psicologici e comportamentali propri del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), nei quali compare l’aggressività, la depressione, l’enuresi, i flashback e un attaccamento psicotico alla madre o ad un familiare. Questi sono i dati agghiaccianti delle ricerche che svolse sul campo Eyad Sarraj, esperto di salute mentale e attivista per i diritti umani.

Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, porta con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, dice Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro. Ma il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico. Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti.
A scuola le materie preferite di Amal sono l’arabo e l’inglese, lei da grande sogna di diventare una dottoressa.

Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente, e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.

Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni, e ha vissuto momenti terribili che non si augurano neanche al peggiore dei nemici. Ha visto frantumarsi il cranio di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba, e, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale.

Mohamed Shokri, di soli 12 anni, ha raccontato all’ONU: “Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”.

E non è tutto.
Dopo un bombardamento, nessun sopravvissuto per la famiglia Ghannam, l’unico superstite era il gatto, che vagava sulle macerie della casa.
Anche gli ospedali hanno subito gravi danni in seguito all’offensiva militare e al blocco. Quotidiano ritrovo per morti e feriti più o meno gravi; i pazienti con difficili patologie non hanno neanche la possibilità di essere curati sul posto, e si vedono continuano negare o posticipare il permesso di lasciare la Striscia per andare a curarsi. Ne sa qualcosa la famiglia di Samir al-Nadim, padre di tre figli, deceduto dopo che il permesso di lasciare Gaza per subire un’operazione al cuore era stato rimandato per ben 22 giorni.

Cresce la disoccupazione, e inesorabilmente aumenta la povertà. La tragedia di questa guerra non ha fine e coinvolge tutta la vita quotidiana – se vita si può chiamare.

Da eventi simili non possono che scaturire emozioni forti come la paura, il dolore, il senso di impotenza, e a volte anche il senso di colpa per essere sopravvissuti. Non importa se giovani o vecchi – anche se la guerra in sé è più drammatica per i bambini – l’intero sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; l’idea di essere costantemente in pericolo, sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria. E lasciano un segno indelebile per tutta la vita.

“Historia magistra vitae”, aveva detto Cicerone, ma sembra che più il tempo passi più l’uomo si dimentichi della sua essenza di essere umano. Sembra non esista più una morale. In meno di un secolo e mezzo si sono consumate guerre logoranti in tutto il mondo, sono state uccise vittime innocenti e popoli interi.
Il crescente isolamento e la sofferenza degli abitanti di Gaza non possono continuare.

[Credit: news.it; cerca.unita.it]