Arriva dagli USA la notizia che porrà molti di noi di fronte ad un grande interrogativo: sono affetto da sefite, o no?
Secondo l’American Psychiatric Association il fenomeno selfie è un vero e proprio disturbo mentale.
La diagnosi parla chiaro: questo disturbo manifesta mancanza di autostima e lacune nella propria intimità.
La nuova patologia – selfitis, selfite – colpisce, quindi, coloro che tentano di compensare una mancanza e, di conseguenza, abusano di altro. In questo caso di autoscatti.
In gruppo o da soli, c’è chi del selfie ne ha fatto uno stile di vita.
Complici innumerevoli App, prima fra tutte Instagram, e l’istantaneità dei nostri smartphone, abbiamo attraversato diversi stadi di selfite.
È ormai lontana l’era del foodstagramming in cui sembrava non potersi godere il proprio pranzo senza prima averne postato una foto sul web, ma la mania non cambia.
Cambiano i soggetti: adesso è il momento della piena rappresentazione di sé.
Abbiamo visto persone avvolgere il proprio volto con del nastro adesivo per scattare un sellotape, coppie immortalare il proprio selfie after sex, e aldilà di qualche – poche – iniziativa di spessore come quella no make up selfie, il fenomeno dell’autoscatto sembra esserci sfuggito di mano.
Al punto che l’American Psychiatric Association ci fornisce addirittura una scaletta per valutarne la gravità.
Con il termine selfitis borderline vengono indicati coloro che fotografano se stessi almeno tre volte al giorno, ma dopo non rendono pubblico l’autoscatto; quelli, invece, affetti da selfite acuta scattano tre fotografie e le postano tutte sul web; coloro che, infine, non resistono alla tentazione di immortalare la propria immagine per un numero di selfie pari o superiore ai sei sono definiti i selfitis cronici.
Nell’era digitale, quella in cui lo scambio di emoticons ruba il posto allo scambio di emozioni, la nostra community di amici virtuali riesce a sopperire senza lacune – apparenti – alla cerchia di amici fidati, ed è possibile colmare le distanze in tempo reale, al punto che una video chiamata sembra non far sentire il peso del non potersi parlare guardandosi negli occhi, anche la nostra immagine è finita nel baratro dell’istantaneità 2.0.
C’è chi, invece, attraverso i selfie riesce a sponsorizzare articoli e fare del sano ed efficiente marketing, riferendosi ad un pubblico di potenziali acquirenti che, del resto, è sul web che cerca i propri bisogni primari e non. Questa strategia di vendita non si può considerare una patologia. Ma riguarda una percentuale limitata di persone a cui è rivolto lo studio condotto negli USA.
Dunque: si selfie chi può, ma con con moderazione.
L’epidemia di ebola che sta colpendo l’Africa, la Guinea in particolare, sta spaventando tutto il mondo, poichè il virus è particolarmente pericoloso per l’uomo, con un tasso di mortalità piuttosto elevato (dal 25 al 90% dei casi), secondo il Global Alert and Response (GAR) del World Health Organization.
La prima epidemia nel 1976 scoppiò nella valle dell’Ebola, da qui il nome, nella Repubblica Democratica del Congo, in un ospedale di suore olandesi. La malattia, causata dal virus estremamente aggressivo che appartiene alla famiglia dei Filoviridae, si manifesta con una febbre emorragica e con sintomi di febbre, vomito, diarrea, dolori diffusi agli arti, a volte numerosi problemi al sistema nervoso centrale e malessere, eruzioni cutanee, con alcuni casi di emorragie anche interne ed esterne. Data la sua pericolosità il virus dell’ebola è classificato come agente di bioterrorismo di categoria A e viene considerato una potenziale arma biologica.
Il virus è molto infettivo e virulento, e quindi se colpisce una o due persone in un villaggio, si diffonde con estrema rapidità e “consuma” le persone che colpisce. Il serbatoio naturale del virus sono molto probabilmente grossi chirotteri, come i pipistrelli, che abitano le foreste tropicali. Per arrivare all’uomo il virus potrebbe passare dalle volpi volanti alle scimmie, o altri animali, e infine all’uomo che mangiando la carne di questi animali può essere rapidamente contagiato.
Purtroppo, non esistono cure o vaccini. Sono sotto studio metodi estremamente avanzati, come la cosiddetta tecnologia antisenso, ma non si hanno ancora risultati clinici.
Pur essendo mortale non è riuscito a diffondersi al di fuori dei villaggi in cui scoppiava l’epidemia, e veniva fermato solo dal fatto che colpiva regioni remote e isolate, dove spesso uccideva la maggior parte della popolazione. L’arrivo in città popolose e con rapidi collegamenti con l’esterno potrebbe essere molto preoccupante, visto che le condizioni di una grande città sono ideali per la trasmissione di un virus così aggressivo.
I primi esperti partiti da Atlanta sono già arrivati in Guinea, luogo da cui è partito il contagio. Si tratta di medici e personale del Centers for Disease Control and Prevention, che vuole ora verificare sul posto la reale gravità dell’epidemia e soprattutto cercare di fermarla. Di fronte alla diffusione dei casi anche al di fuori dei confini dello stato africano, infatti, alcuni paesi hanno deciso di chiudere le frontiere e rafforzare i controlli sanitari, come ad esempio in Senegal.
Massima allerta anche all’aeroporto di Casablanca, in Marocco, in Arabia Saudita, che ha sospeso la concessione di visti ai pellegrini in arrivo dalla paese africano del contagio per visitare la Mecca, anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non ha ancora posto il divieto di scambio tra i paesi.
Le vittime ufficiali dell’epidemia sono 78 e 122 i pazienti sospetti. Medici senza Frontiere parla senza mezzi termini di “epidemia senza precedenti“. “Ci troviamo di fronte a un’epidemia di dimensioni mai viste in relazione alla distribuzione dei casi sul territorio con molte città colpite nel Sud e casi nella Capitale” ha spiegato Mariano Lugli, coordinatore locale dell’organizzazione.
Non si tratta della prima volta che si verifica un focolaio di virus dell’ebola, ma in passato le epidemie erano più circoscritte a livello territoriale. Anche il tipo di virus individuato non facilita gli interventi: infatti, secondo il governo della Guinea si tratta del “tipo Zaire“, la forma più aggressiva e mortale delle cinque varianti della famiglia di filovirus, che provocano l’ebola. Si trasmette per contatto diretto con il sangue, i liquidi biologici e i tessuti infettati, sia di uomini che di animali, vivi o morti, dunque le possibilità di contagio sono elevatissime.
Finora questo patogeno era limitato a pochi villaggi perduti nella foreste tropicali di Costa d’Avorio, Congo, Guinea e Sudan, in cui l’epidemia si spegneva in pochi giorni. L’arrivo del virus nella capitale della Guinea, Conakry, che conta più di un milione di abitanti, preoccupa molto. A Conakry ci sono 13 casi, a cui si aggiungono una decina di casi nella vicina Liberia.
Un medico che lavora con Medici Senza Frontiere, Naoufel Dridi, ha parlato delle scene orribili a cui ha assistito, descrivendo le sofferenze dei pazienti colpiti dal virus tropicale e raccontando le difficoltà che devono affrontare gli operatori umanitari nel tentativo di curare chi soffre. Gli specialisti sanitari lavorano in un reparto di isolamento per i pazienti presso l’impianto di Medici Senza Frontiere in Guekedou, Guinea meridionale. Inoltre, il personale di MSF è stato dotato di indumenti protettivi da indossare per aiutare a prevenire la diffusione della malattia.
“Possiamo aiutare qualcuno facendogli bere un succo di frutta o un bicchiere di acqua fredda, perché si sa che le possibilità di sopravvivenza sono poche, e quindi meno di un’ora più tardi il paziente è già morto“. Queste le parole di Dridi rilasciate al Daily Telegraph.
Per i medici e le famiglie di coloro che sono stati colpiti è molto difficile tenere la situazione sotto controllo. “Sanno che siamo in grado di trattare solo i sintomi, non il virus. Se quella persona sopravvive è solo perchè il corpo reagisce bene e combatte la malattia“, ha affermato Dridi.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha minimizzato la portata del focolaio dicendo che precedentemente erano state colpite un numero di persone più grande nella Repubblica Democratica del Congo e Uganda.
Un altro esperto, il dottor Jochum, ha aggiunto che questo focolaio è un evento eccezionale a causa degli alti tassi di mortalità dei casi individuati e quindi dovrebbe essere preso molto sul serio. “Un focolaio di Ebola ci potrebbe portare ad un disastro umanitario“, ha detto.
Il virus ebola è stato fonte di idee e soggetti per film e opere di narrativa di vario genere, dovuto al mistero che gira intorno alla malattia, così virale e contagiosa, con un alto tasso di mortalità fra i soggetti colpiti. Si spera si possa trovare al più presto una soluzione efficace per combattere questa terribile lotta contro questo virus mortale.
Se fino a qualche anno fa la dieta vegetariana era poco conosciuta, oggi rappresenta uno stile di vita seguito in tutto il mondo. In Italia sono circa 6 milioni le persone che lo hanno scelto, abbandonando per sempre il consumo di carne. Questo tipo di alimentazione richiede una maggiore attenzione nell’assunzione degli alimenti e l’aiuto di un nutrizionista che segua il percorso passo dopo passo. Infatti pur apparendo come un comportamento più salutista, l’impatto di questo regime dietetico può avere effetti negativi, comportando una povera qualità della vita e una maggiore necessità di assistenza sanitaria.
Un nuovo studio della Medical University di Graz in Austria mostra che i vegetariani seguono uno stile di vita molto più salutista. Sono più attivi fisicamente, bevono meno alcol e fumano meno tabacco rispetto a quelli che consumano carne nella loro dieta. Se da una parte questo tipo di vita – associato ad un’alimentazione povera di grassi saturi e colesterolo e una maggiore assunzione di frutta e verdura – riduce il rischio di malattie cardiache e sovrappeso, d’altra parte aumenta il rischio di cancro, allergie e disturbi della salute mentale. I vegetariani hanno infatti due volte più probabilità di avere allergie e un aumento del 50 percento nell’incidenza del cancro.
I ricercatori austriaci hanno condotto lo studio – pubblicato su Plos One – prendendo in considerazione le abitudini alimentari dei partecipanti, così come le loro caratteristiche demografiche, analizzando anche le differenze nello stile di vita generale tipico di ognuno di loro. I partecipanti sono stati 1320, di cui 330 vegetariani, 330 che seguono un’alimentazione equilibrata tra carne, frutta e verdura, 330 che mangiano poca carne e altri 330 che seguono una dieta solo a base di carne. I vegetariani sono risultati in uno stato di salute peggiore rispetto agli altri gruppi, riportando elevati livelli di disturbi, come le malattie croniche, ma anche soggetti ad ansia e depressione.
In ogni caso l’esagerazione nel campo dell’alimentazione può non essere sempre conveniente per la salute, sia che si tratti di una dieta vegetariana, sia che includa anche la carne e altri prodotti di origine animale. L’equilibrio è fondamentale e i possibili rischi sono spesso associati a una dieta spinta all’eccesso, in cui mancano le sostanze fondamentali al corretto funzionamento dell’organismo.
Capita che l’ansia, lo stress e la disperazione, trasformino la vita in una lotta continua con e contro se stessi. Una lotta che spesso divora la vita, lasciandola a brandelli. Diminuisce sensibilmente la motivazione, l’interesse per qualsiasi cosa, mentre l’insicurezza avanza veloce. Depressione, è di questo che si tratta.
Sicuramente è difficile uscirne, soprattutto se si è da soli in questa lotta contro un male psicologico, ma per cercare miglioramenti bisogna affrontare la vita un passo alla volta. Letteralmente.
Ad esempio, muoversi con regolarità e andare in palestra aiuta molto -perché l’esercizio fisico permette al corpo di rilasciare endorfine, un componente chimico del benessere cerebrale, capace di migliorare il nostro umore – ma spesso non si ha né la voglia, né la forza di alzarsi dal letto, o dal divano. Gli studiosi propongono allora di scomporre la giornata in mini-passi. È, infatti, meglio pensare di andare solo in palestra, non pensare di dover andare per un tot di tempo. E ancora, è meglio pensare a ciò che si fa una cosa alla volta, piuttosto che lasciar correre la mente libera, imparando a vivere nel momento presente.
Alla fine ci si ritrova a vivere la vita piccoli passi alla volta. Questo cambio di mentalità aiuta a liberarsi e uscire da una situazione di inerzia costante.
Questo è un consiglio contro la depressione che spesso non è dato ai pazienti. Si preferisci imbottirli di pillole, ma la verità è che, come gli antidepressivi, l’esercizio fisico aiuta il cervello a far crescere nuovi neuroni.
Il jogging come una medicina: combattere la malinconia con lo sforzo fisico.
Quando si tratta di rimedi non farmacologici per la depressione, l’esercizio fisico è in realtà solo una delle diverse opzioni promettenti. Negli ultimi tempi, infatti, la ricerca ha dimostrato che altri aggiustamenti nello stile della vita quotidiana, come la meditazione o più ore di sonno, potrebbero aiutare ad alleviare i sintomi.
Di questo se ne sono accorti anche gli psichiatri, che hanno iniziato a incorporare trattamenti non farmacologici nei loro piani per i pazienti depressi.
Cambia così anche la gestione degli ostacoli nel corso della vita.
Tutto, però, dipende dalla forza di volontà delle persone stesse. Moltissimi depressi, infatti, si convincono di non poter “perdere tempo” per andare in palestra, fare esercizio – di quello fatto bene – o una corsa all’aria aperta. Di non poter permettersi di dormire un’ora in più, piuttosto che una in meno. Molti preferiscono imbottirsi di farmaci, non sapendo a cosa poi andranno incontro.
E forse è proprio quest’insieme di cose, questa noncuranza verso se stessi che ha portato alla condizione di malessere psicologico. Perché sì, questa condizione di “malattia” è molto questione di mentalità, ma dedicare del tempo a se stessi, alla propria persona, non può far altro che bene. Questo, quindi, prima delle medicine.