martedì, 8 Aprile 2025

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Abitudini mattutine: cosa sbagliamo prima di andare al lavoro

Svegliarsi dovrebbe sempre essere qualcosa di rigenerante: eppure, esistono abitudini mattutine che non fanno altro che renderci la vita più difficile. Pensiamo all’istinto immediato di controllare lo smartphone non appena alzate: la ricetta perfetta per una giornata piena d’ansia. Si tratta di un gesto che aumenta i nostri livelli di stress prima ancora di aver fatto colazione, un’abitudine sbagliata cui si dovrebbe porre rimedio concedendosi cinque minuti di meditazione: sedersi su una sedia e concentrarsi sulla propria respirazione procura, infatti, grossi benefici fisici e mentali. Ma anche buttarsi direttamente sotto la doccia è, al contrario di quanto si possa credere, dannoso: una doccia calda ci riporta davvero dallo stato di zombie a quello di semi-umani? Assolutamente no: dopo ore e ore trascorse in orizzontale ciò di cui il nostro corpo ha bisogno è giusto un po’ di attività fisica per riattivare la circolazione – una necessità a cui si può ovviare facendo un po’ di stretching prima di alzarci.

Per di più, non tutti sanno che nel momento in cui ci alziamo i nostri corpi sono disidratati e anche in stato di lieve acidità: così, cominciare la giornata con bevande acide quali quelle contenenti caffeina può essere un grave errore. La soluzione? Bere mezzo litro d’acqua con un’aggiunta di spremuta di limone: un vero toccasana per riattivare l’apparato digestivo e l’equilibrio di tutto l’organismo. Anche una colazione basata prevalentemente su carboidrati può esserci più d’intralcio che d’aiuto: mangiare grossi quantitativi di carboidrati è destabilizzante per i nostri livelli glicemici, in quanto gli zuccheri vengono assorbiti subito dal sangue, dandoci una forte carica di energia cui tuttavia seguono cali poche ore dopo. È raccomandabile, allora, accompagnare al consumo di carboidrati quello di proteine, che rallentano l’assorbimento degli zuccheri: provare a passare da latte e cereali a yogurt greco intero con una manciata di nocciole e mandorle per credere.

Le donne innamorate ingrassano più di quelle single

donna.nanopress.it

Chi ha detto che l’amore chiude lo stomaco e toglie l’appetito? Uno studio effettuato dal portale SugarBBW.it dimostra esattamente il contrario: le donne single sono più magre rispetto alle donne innamorate. Forse perchè le single devono ancora trovare la loro dolce metà?

Stando a questo sondaggio, il 58% delle donne ha dichiarato di essere ingrassata durante il primo anno di convivenza o di matrimonio, quello che per la coppia dovrebbe essere il più gioioso e spensierato. Le donne tenderebbero a mettere su chili perchè, in particolare durante il primo anno, aumentano le cene fuori con il proprio partner, che vizia la propria compagna. Altro fattore che fa mettere su carne alle neo conviventi o neo sposate è la pigrizia: per la coppia aumenta la voglia di stare a casa, da soli, per conoscersi ancora meglio e, perchè no, per capire se la scelta fatta è quella giusta.

Insomma, le donne innamorate e che vivono una relazione felice e tranquilla ingrassano più facilmente di quelle single, che, al contrario sono più magre e decidono di tenersi in forma. Le donne sposate, che convivono o che sono semplicemente fidanzate mettono su, in media, 1,8 chili per ogni anno passato insieme al partner.

Durante il sondaggio ci sono state delle eccezioni: infatti, il 12% delle coppie innamorate che hanno deciso di sottoporsi a questo studio hanno affermato di continuare a tenersi in forma, facendo movimento o prestando attenzione all’alimentazione. Questa bassa percentuale ha deciso, a differenza di tutte le altre coppie, di non avere una vita sedentaria e di dedicare attenzione alla cura del proprio corpo.

Gluten Friendly: il glutine mai più nemico dei celiaci

Credits photo : vicanutrizione.it

Le intolleranze alimentari sono sempre più oggetto di studio da parte di medici e ricercatori, vista la crescente incidenza di neo diagnosticati all’anno, anche in Italia.

Una tra queste è la celiachia, malattia autoimmune dell’intestino tenue, la cui unica cura, almeno per ora, è una dieta rigorosa priva di glutine, un complesso proteico presente in alcuni cereali come frumento, segale, orzo, avena, farro e kamut.

Un gruppo di ricerca del dipartimento di Scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente dell’Ateneo di Foggia ha brevettato un metodo scientifico assolutamente rivoluzionario a cui lavora da alcuni anni, con cui vengono modificate le proteine del glutine, che subiscono cambiamenti tali da non scatenare nel soggetto celiaco la cosiddetta «cascata infiammatoria», una serie di combinazioni chimiche meglio note come intolleranza.

Nello specifico di questo brevetto, secondo i ricercatori la granella di frumento rappresenterebbe il cuore della soluzione al problema della celiachia in quanto, nel seme di frumento, il glutine non è ancora formato e le sue proteine sono depositate in piccole “cellette” che consentirebbero, in presenza di acqua ed elevate temperature, i cambiamenti necessari per produrre il Gluten Friendly.

Questo metodo farà sì quindi che tutti i cibi proibiti per i celiaci siano invece commestibili grazie proprio al Gluten Friendly, il glutine amico adatto a tutti i tipi di farine utilizzate per la preparazione e il confezionamento di prodotti per i soggetti intolleranti, senza influenzarne sapori e proprietà.

Una scoperta che forse cambierà la vita dei celiaci. Staremo a vedere, certo un plauso va alla ricerca e a chi la sostiene.

La fonte primaria di Omega-3 è vegetale

Stando a uno studio pubblicato ultimamente sull’American Journal of Clinical Nutrition, l’acido grasso Omega-3 sarebbe più facile da assimilare attraverso il consumo di vegetali che non mediante l’assunzione di prodotti ittici: ne deriva pertanto che vegetariani e vegani ricaverebbero gli acidi grassi omega-3 a lunga catena tipici del pesce dagli acidi grassi omega-3 vegetali, senza alcun bisogno di inserire nelle proprie diete piatti a base di pesce. Si tratta, ad ogni modo, di sostanze indispensabili al regolare funzionamento del metabolismo, che quindi bisogna premurarsi di introdurre all’interno del proprio organismo: già da un po’ a questa parte si era a conoscenza del fatto che gli omega-3 si trovassero con più facilità in fonti di tipo vegetale, quali noci, semi di lino e olio di semi di lino, di quanto non accada in fonti di tipo ittico, in cui la concentrazione di acidi grassi è minore di quanto si pensi abitualmente.

Lo studio, realizzato dal Dottor Welch e dal suo team, ha definitivamente confermato quanto la fonte primaria degli acidi grassi omega-3 sia appunto quella vegetale: analizzando 14.422 tra uomini e donne di età compresa tra 39 e i 78 anni nell’ambito dell’indagine medica “EPIC” (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition) e selezionando successivamente i 4.902 soggetti a cui erano stati misurati i livelli plasmatici degli acidi polinsaturi omega-3 e omega-6, è stato messo in luce come l’acido alfa-linoleico “ala” (precursore degli acidi grassi omega-3 a lunga catena) immesso nell’organismo viene metabolizzato e convertito in acido icosapentaenoico e in acido docosaesaenoico, entrambi coinvolti nella formazione delle membrane cellulari, nello sviluppo e nel funzionamento del cervello, nel rilascio di eicosanoidi (regolatori della pressione sanguigna) ed altro ancora.

Mettendo a confronto vegani e vegetariani (che seguendo il loro regime alimentare avrebbero dovuto ingerire minori dosi di omega-3) e quanti consumano abitualmente pesce in abbondanza, i livelli di acido icosapentaenoico e di acido docosaesaenoico si sono rivelati praticamente identici negli uni e negli altri. Da qui, quella che i ricercatori hanno definito una “efficienza di conversione” in acidi grassi omega-3 a lunga catena, maggiore nei vegetariani e nei vegani rispetto ai consumatori di pesce. Un risultato significativo, se si considera che l’EPIC costituisce lo studio su popolazione più ampio condotto relativamente ai livelli di ALA e alla conversione in acido icosapentaenoico e in acido docosaesaenoico. Dati che insomma, se supportati da studi ulteriori, potrebbero incidere notevolmente sulle misure da prendere in fatto di Salute pubblica, andando a contribuire anche alla tutela delle specie ittiche in via d’estinzione.