venerdì, 26 Aprile 2024

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Troppe abbuffate e tante calorie: ecco come smaltire le uova di Pasqua

Uova di Pasqua da 800 calorie. Non serve rabbrividire al solo odore di cioccolato o pensare già alla prova costume tra qualche mese. Come “smaltirlo”? Bisogna escogitare. Per un uovo di quelle “dimensioni” caloriche serviranno sicuramente più di 4 ore di camminata (meglio se a passo svelto).
Per i più dinamici un’ora e venti di corsa o anche 61 minuti di burpees, esercizi a corpo libero che fanno lavorare i muscoli. Questa la “scheda” dinamica e fitness dell’esperto inglese Darren Casey, che, in occasione delle festività pasquali, regala soprattutto ai vecchi e saggi trasgressori della linea un vero e proprio insieme toccasana per rimediare allo “sgarro” delle feste.

Se il gusto è cioccolato al latte e ci lasciamo andare a mezzo uovo di Pasqua, pari a 180 calorie – spiega Casey – l’equivalente per smaltirlo è di circa 50 minuti di camminata o 20 minuti di corsa a velocità molto sostenuta – insomma, per chi è già avvantaggiato. Per chi ha la “tartaruga al contrario”, chi l’ha donata al WWF e chi quest’estate punterà sulla simpatia, si consiglia un viaggio di pellegrinaggio a Lourdes. In alternativa ci sono il training metabolico, costituito da esercizi molto duri da sostenere per 8 minuti circa, o i burpees, gli esercizi a corpo libero, per 13 minuti. Se invece avete scelto un uovo al cioccolato fondente e se ne mangia poco meno della metà – circa 250 calorie – serviranno un’ora e 15 minuti di camminata non-stop, 35 minuti di corsa a ritmo sostenuto oppure 17 minuti di training metabolico o 19 di burpees.

Insomma, che siano fondenti o al latte, colorate, fai da te, decorate, grandi o piccole, le uova di cioccolato sono da sempre le protagoniste della nostra Pasqua e delle nostre tavole. Basta non esagerare.

Yoga al naturale, per mettere a nudo la propria verità

Ritrovarsi nudi nel bel mezzo di una lezione è probabilmente uno dei peggiori incubi di sempre, ma non quando si tratta di una lezione di Yoga. Praticare Yoga al naturale sta diventando un’attività sempre più popolare nelle palestre londinesi, dove ci si spoglia nella penombra per concedersi un paio d’ore di meditazione in totale silenzio, a occhi chiusi, prima di rientrare di soppiatto nei propri panni e andarsene senza proferire parola.

Si tratta, tuttavia, di una pratica che, in realtà, affonda le sue radici in tempi antichissimi ed è tuttora in uso presso figure religiose di spicco in India. Negli anni ’60, lo “Yoga a nudo” si diffuse soprattutto tra i seguaci del movimento Hippie americano e oggi ritorna in voga grazie ai sempre più celebri corsi misti che si tengono a New York e a Los Angeles. A Londra, la componente è ancora prevalentemente maschile: l’unico centro in cui si possano seguire lezioni miste in tutta l’Inghilterra è il Naked Yoga London, dove anche l’insegnante Annette istruisce i suoi allievi completamente nuda.

Lo Yoga al naturale è, senz’altro, un modo per superare i propri complessi fisici e accrescere la fiducia in se stessi, ma è soprattutto un’attività critica nei confronti del capitalismo occidentale: spogliandosi, infatti, le persone sono tutte uguali. Nessuno short sportivo all’ultimo grido di cui vantarsi: l’unica cosa a contare davvero è il proprio corpo – e, forse, anche l’anima.

Molte sono le donne ossessionate dai propri difetti fisici che hanno tratto immenso beneficio nel praticare Yoga al naturale e che hanno così trionfato definitivamente sulle proprie fisime. La nudità, però, non è indispensabile al Naked Yoga London, dove ciò che si promuove di più è l’accettazione degli altri e di se stessi. Ad ogni modo, praticare Yoga in totale nudità resta la sola maniera di farne un esercizio rigenerante: superare il fatto che si è nudi, cioè nella condizione di vulnerabilità per antonomasia, significa acquisire, per contro, una forza altrimenti condannata a non svelarsi mai.

Cosa dice la posizione in cui dormite della vostra coppia?

Credit: deabyday.tv

Siete di quelli che dormono rannicchiati contro il partner durante la notte? Oppure preferite avere ognuno e i propri spazi per riposare?
Una nuova ricerca dimostra come la posizione in cui dormiamo con il nostro partner rivela molto circa la forza della nostra relazione.

La chiave di lettura è la distanza: le coppie che dormono lontane meno di un centimetro sono, o saranno, di gran lunga più felici rispetto a quelle che dormono con una distanza maggiore.
Questo studio è stato condotto su 1.100 persone, 550 coppie.
La ricerca è stata pubblicata sul Edinburgh International Science Festival, e si estende fino ai rami della psichiatria.

Dalle ricerche è emerso che il 42% delle coppie dorme “schiena contro schiena”, il 31% nello stesso senso e solo il 4% dorme “faccia a faccia”.
Circa il 34% dei partner dormono toccandosi, il 12% di questi passa la notte a meno di un centimetro di distanza e, infine, il 2% dei partner dormono separati da più di 30 centimetri.
Il risultato è che quelli che dormono vicini, “faccia a faccia” – e ancora di più quelli che dormono toccandosi – tendono ad essere più felici.

Lo psicologo Richard Wiseman ha detto “Ninety four per cent of couples who spent the night in contact with one another were happy with their relationship, compared to just 68 per cent of those that didn’t touch – e ancora – this is the first survey to examine couples’ sleeping positions, and the results allow people to gain an insight into someone’s personality and relationship”.

Lo studio ha dimostrato anche che le persone che giacciono rannicchiate in posizione fetale sono suscettibili, ansiosi e sensibili alle critiche della rispettiva dolce metà. Quelli che, invece, dormono in una posizione semi-fetale, con le ginocchia rannicchiate, cercano sempre compromessi, senza prendere mai posizioni estreme.
Tutti quelli che dormono “a pancia in giù” tendono ad essere fiduciosi, aperti, espansivi, e sempre alla ricerca di nuove sensazioni ed emozioni.

Voi? Come dormite?

[Credit: DailyMail]

Il perfezionismo nuoce gravemente alla salute

Spesso si è portati a credere che il perfezionismo sia qualcosa di lodevole, eppure recenti studi dimostrano che può avere effetti davvero nocivi, provocando non solo stress psicologico, ma anche dolore fisico, con disturbi che variano dalla sindrome dell’intestino irritabile all’insonnia, alle disfunzioni cardiache – se non addirittura morte prematura.

La Dottoressa Danielle Molnar, psicologa presso la Brock Univesity in Canada, anzi, ritiene che il perfezionismo sia causa di malattie al pari dell’obesità e del fumo.Non si fa che promuovere continuamente il perfezionismo e i benefici che se ne traggono in termini di successo lavorativo o accademico, eppure – sostiene la Molnar – esso è all’origine di un gran numero di disturbi, tra cui l’aumento delle infezioni e la morte prematura. Per tanto, credo che vada considerato dai medici come un dato da non trascurare in rapporto alla salute dei pazienti.

Si ritiene siano due su cinque le persone con tendenze perfezioniste. Un numero che sta, in realtà, crescendo a causa di social media come Facebook e Twitter, i cui utenti sembrano sempre più ossessionati dalla preoccupazione di essere o, meglio, di apparire perfetti. A stabilirlo è il Dottor Gordon Flett, professore di psicologia alla York University del Canada che ha dedicato ben 20 anni della sua vita a indagare il nesso tra perfezionismo e psicologia. “È normale voler essere perfezionisti in un determinato ambito della propria vita, come per esempio quello lavorativo – afferma il Dottor Flett – tuttavia, quando la cosa degenera in un bisogno ossessivo di perfezione a 360°, portando a desiderare un lavoro perfetto, un bambino perfetto, una relazione perfetta, un corpo perfetto e così via, può causare livelli di stress estremamente alti e può incidere negativamente non solo sui nostri rapporti, ma anche sulla nostra salute.

Il Dottor Flett ha così delineato tre tipi di perfezionisti: gli “autoreferenziali”, gli “alter-autoreferenziali” e gli “eterorefenziali”. Gli auto-referenziali si basano esclusivamente sui propri personali standard di perfezione; gli alter-autoreferenziali, invece, sono quelli che impongono determinati standard agli altri, alla maniera del temutissimo chef Gordon Ramsay; gli eteroreferenziali, infine, sono perfezionisti che rispondono all’etichetta sociale, che soddisfano le richieste di genitori, datori di lavoro e colleghi: un esempio su tutti è quello del celebre tennista Andre Agassi, che il padre – da alter-autoreferenziale – costringeva ad allenarsi strenuamente nonostante il caldo torrido della Florida. I perfezionisti che impongono i propri canoni di perfezione agli altri finiscono, peraltro, col generare in questi ultimi un forte sentimento di disprezzo – tant’è che Agassi nella sua autobiografia ha poi dichiarato di odiare il tennis, un odio probabilmente originatosi a partire proprio da quegli allenamenti e da quei sacrifici eccessivi cui veniva costretto da bambino.

Ad ogni modo, gli studi della Dottoressa Molnar hanno dimostrato che il perfezionismo da etichetta sociale causa, in maggioranza, sofferenze fisiche: la ricerca, condotta su 500 adulti di età compresa tra i 24 e i 35 anni, consisteva nel rispondere a un questionario chiamato “La Scala Multi-Dimensionale del Perfezionismo”, che rendeva possibile stabilire se i soggetti fossero dei perfezionisti e, qualora lo fossero stati, di che tipo. Dai risultati si è evinto che i perfezionisti da etichetta sociale non godevano di buona salute, andavano spesso a farsi visitare dal medico e prendevano più giorni di malattia.

In maniera ancora più allarmante, un altro studio ha dimostrato che ambire incessantemente alla perfezione aumenta il rischio di morte prematura. Nel corso di questo studio della durata di sei anni, i ricercatori della Trinity Western University nel Canada hanno preso in esame 450 adulti – perfezionisti e non – dai 65 anni in su: i perfezionisti sono risultati essere del 51% più a rischio di morte prematura.

Il problema è che è davvero raro che i perfezionisti chiedano aiuto e anche qualora gli si dia supporto, lo interpretano come una forma di giudizio o di critica nei loro confronti per il fatto di non essere in grado di prendersi cura di se stessi, mentre il supporto e la socialità sono gli elementi che più contribuiscono a migliorare la salute e persino ad allungare la durata della vita. Ma i perfezionisti il più delle volte se ne privano: “Non hanno molta cura di sé“, spiega il Dottor Flett. “Spesso si chiedono perché si sentano poco bene, avvertendo la malattia come un fallimento e costringendosi a trascurarla, negandosi il tempo necessario a guarire ed evitando di chiedere aiuto“: un atteggiamento che rallenta la ripresa e può provocare ulteriori disfunzioni, soprattutto al livello cardiaco. Stress, insoddisfazione cronica e mancanza di supporto sono state infatti individuate come le costanti all’origine dei problemi cardiaci, cui i perfezionisti risultano perciò più esposti rispetto a persone dotate di una personalità positiva.

Ma non è tutto: i perfezionisti sono anche più propensi a contrarre la sindrome dell’intestino irritabile, come suggerisce una ricerca condotta nel 2007 dagli specialisti dell’Università id Auckland in Nuova Zelanda. Durante lo studio sono state monitorate 620 persone che avevano avuto gravi episodi di intossicazione alimentare e quelle affette dalla sindrome dell’intestino irritabile presentavano, appunto, tendenze perfezioniste come la trascuratezza nel curare la propria salute fino alle estreme conseguenze.
Si tratta di soggetti ossessionati dal fare la cosa giusta: per loro, prendersi dei giorni di malattia è come andar contro i propri ideali“, spiega la Dottoressa Rona Moss-Morris, all’epoca a capo dei ricercatori.

Lo stress continuo cui i perfezionisti si sottopongono aumenta il rischi di sviluppare questo tipo di sindrome, che può manifestarsi con gonfiori, diarrea e crampi, ma non sono esclusi casi di disordini alimentari, in particolare di anoressia e di disturbo da alimentazione incontrollata: la rigidità dei perfezionisti, infatti, si riversa anche nella dieta, che spesso esclude intere categorie di alimenti e comunque contempla l’assunzione di cibo a basso contenuto calorico. Mancato un obbiettivo, però, i perfezionisti ricorrono all’abbuffata: mangiare li tranquillizza, ma soltanto momentaneamente, perché la vergogna e il senso di colpa li porteranno a un autocontrollo ancora più rigido. Per ridurre gli effetti negativi che si autoprocurano, i perfezionisti dovrebbero imparare ad accettare se stessi e i propri errori, facendo meno autocritica. “Abbassare il livello degli standard e accettare un fallimento di tanto in tanto costituiscono la chiave del miglioramento – suggerisce il Dottor Flett – ma, più d’ogni altra cosa, i perfezionisti devono imparare a chiedere aiuto, senza più soffrire in silenzio“.