sabato, 27 Aprile 2024

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Caffè dipendenti: ecco la classifica dei lavoratori

C’è quello americano o il classico espresso. Il caffè è sicuramente la bevanda più amata dagli italiani, e non solo, per tenersi svegli e attivi. Ma quelli ad avere una vera e propria dipendenza da caffeina sono i lavoratori.

Ben l’85% dei professionisti, tra giornalisti, insegnanti e funzionari di polizia, secondo un sondaggio, consumano dalle quattro alle cinque tazze o tazzine di caffè al giorno e quasi il 70% ha detto che la capacità di lavoro ne risentirebbe senza la dose quotidiana di caffè. Il 71% ha detto che bevevano il caffè principalmente per il gusto e l’aroma del caffè.

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Questo sondaggio è stato effettuato tra 10.000 lavoratori e ne è venuta fuori una curiosa classifica.

1. Giornalisti e personale dei media: quattro o cinque tazze al giorno
2. Agenti di polizia
3. Insegnanti
4. Idraulici e lavoratori nel settore del commercio
5. Infermieri e personale medico: tre o quattro tazze al giorno
6. Dirigenti di Società
7. Addetti alle televendite
8. IT di supporto tecnico: due o tre tazze al giorno
9. Venditori al dettaglio:
10. Tassisti: una o due tazze al giorno

L’indagine è stata svolta tra il 1° luglio e il 17 Agosto 2014, compresi gli impiegati a tempo pieno, liberi professionisti, imprenditori e lavoratori autonomi di età. Tutti i partecipanti erano di età compresa 18 e oltre. In media l’indagine ha rilevato che gli uomini bevono più caffè rispetto alle donne, ma solo un po’ di più, con precisione si tratta del 5%.

Gli esperti sono divisi sul fatto che bere il caffè sia un bene o un male. Secondo NHS Choices, bere più di quattro tazze di caffè al giorno può aumentare la pressione sanguigna, e può portare a disidratazione se è la vostra unica fonte di fluido. Altri studi hanno collegato l’assunzione di caffeina in dosi elevate con diabete, malattie coronarica e ictus.

Tuttavia, altre ricerche hanno scoperto che bere moderate quantità di caffè (circa quattro tazze al giorno) ha ridotto il rischio di insufficienza cardiaca, probabilmente a causa degli antiossidanti,che lavorano per abbassare le infiammazioni nel corpo.

Gli esperti suggeriscono anche, che questo rituale mattiniero è in realtà un segno di tossicodipendenza di massa. “Le persone che consumano regolarmente caffeina diventeranno dipendenti da esso“, ha detto Peter Rogers, professore di psicologia biologica presso l’Università di Bristol e uno dei maggiori esperti sulla caffeina.

Il professor Rogers ha studiato il caffè e i suoi effetti per oltre 20 anni e, di conseguenza, lui e gli altri membri della sua squadra hanno rinunciato caffeina. “A conti fatti, la caffeina non è particolarmente utile. Aumenta la pressione sanguigna e crea dipendenza, che non è una buona cosa“. Inoltre, anche al caffè si può diventare “resistenti“. Infatti, chi ne beve molto può non avvertire più alcune delle sue conseguenze, come stato di allerta o aumento dell’ansia.

Con il consumo frequente di caffè“, ha spiegato Rogers, “si sviluppa innanzitutto una tolleranza agli effetti ansiogeni della bevanda, che quindi non provoca più agitazione. Qualcosa di simile avviene anche per l’attenzione e la lucidità mentale: in chi beve caffè spesso l’effetto di ‘sveglia‘ si perde. Anzi, succede che quando si è in astinenza da caffè, fra una tazzina e l’altra, il livello di attenzione scende al di sotto della soglia ‘normale’ per quell’individuo: bere la tazzina non fa ‘svegliare‘, semplicemente riporta l’amante del caffè nella situazione-base“.

Nella controversa questione sui benefici o i guai portati dal caffè, una cosa sola pare sicura: con moderazione non fa male, neanche a chi ha qualche problema di cuore. Basta appunto non superare le tre, quattro tazzine quotidiane.

Cuore e fiducia uniti dai battiti cardiaci

photo credits: forwallpaper

Quando qualcuno ci fa battere il cuore, molto spesso, è perché riponiamo in lui fiducia e speranza.
Uno sconvolgente studio, però, ci ha dimostrato in maniera scientifica come i cuori di due persone che sono legati da affetto e fiducia siano anche sincronizzati.

La ricerca è stata effettuata Interacting Minds Centre dell’Aarhus University, dove gli scienziati si sono concentrati sul legame tra battito cardiaco e fiducia.
Le coppie che hanno partecipato all’esperimento erano 37. Ogni coppia doveva eseguire un compito insieme: costruire macchine con i Lego, quindi, lavorare insieme in sincronia ed unendo le forze.
Gli scienziati che seguivano le coppie, hanno notato che durante questo esperimento, i cuori delle rispettive coppie battevano in sincronia nel momento in cui si lavorava alla costruzione delle macchine con fiducia.
I cuori di due persone che ripongono fiducia l’uno nell’altro, quindi, battono insieme sincronizzandosi e puntando al raggiungimento di un’obiettivo comune.
Dividendo, successivamente, le coppie in due gruppi ed inserendo l’elemento denaro la scoperta si è fatta ancora più interessante. L’esperimento comprendeva l’investimento di denaro insieme alle altre coppie dello stesso gruppo, da cui poi tutti avrebbero potuto ottenerne profitto. Anche in questo caso, la frequenza cardiaca è risultata più alta nel gruppo più fiducioso. In altre parole, nel gruppo in cui tutti i partecipanti si fidavano dei loro compagni e ritenevano sicuro un investimento in denaro fatto insieme.

Gli scienziati non sanno spiegarsi il motivo di questi meccanismi, tuttavia commentano l’esperimento in maniera positiva. A livello, sociologico e psicologico, si arriva ad una scoperta meravigliosa che in futuro ci rivelerà eventuali dinamiche intercorrenti tra rapporti sociali e corpo umano.

Giornata mondiale contro l’AIDS: quanto è stato fatto finora?

Credits: corrieredinovara.com

Trent’anni fa, Rock Hudson confessò al mondo di essere malato di Aids ed essere omosessuale, dando il via a una stagione mediatica che ha contribuito alla lotta contro questa malattia, e trovando i fondi necessari per contrastarla con trattamenti sempre più efficaci. Tuttavia l’Aids non se n’è mai andato e ogni anno ci sono due milioni di nuove infezioni Hiv. In occasione del 1° dicembre 2015, Giornata Mondiale di Lotta all’Aids, l’invito è perciò questo: non abbassare la guardia. Anche se negli ultimi anni non ci sono più campagne importanti contro Aids e Hiv, è bene ricordare che il numero delle infezioni non è diminuito, anzi, è aumentato costantemente, sopratutto in Europa e in Italia, dove ha raggiunto dei numeri allarmanti. Analizziamoli per capire meglio la situazione.

Ogni 100 mila abitanti, ci sono 6,1 nuovi casi di sieropositività e i più colpiti sono i giovani tra i 25 ed i 29 anni, afferma il Centro Operativo Aids dell’Iss. Non solo: nell’84% dei casi il contagio avviene attraverso rapporti sessuali senza preservativo, che accadono nel 40% casi dei tra omosessuali maschi. Il mancato calo delle nuove diagnosi, unito comunque alla bontà delle cure per chi scopre di avere un’infezione, fa sì che nel nostro Paese ci siano 140mila sieropositivi, il numero più alto d’Europa. Come bisogna fare per prevenire il problema?

Uno studio del Cdc di Atlanta ricorda che l’assunzione dei farmaci prima di contrarre l’infezione ridurrebbe i contagi del 90%, tuttavia non è molto conosciuta neanche dai medici oltreoceano, tanto che oltre un terzo non ne ha mai sentito parlare. Da questi dati si deduce che poco e niente è stato fatto per prevenire. Se si confrontano le stime del 2014, registrate da un rapporto Oms-Ecdc, le infezioni erano 142mila nei 53 paesi della regione europea dell’Oms, di cui circa 30mila nella sola Unione Europea, il numero più alto mai visto da quando è iniziato il conteggio.

Il vero problema di trasmissione è quindi generato dai rapporti omosessuali non protetti. “Le diagnosi di Hiv tra uomini che fanno sesso con uomini sono aumentate ad un allarmante tasso del 42% nel 2014 rispetto al 30% del 2005 in quasi tutti i Paesi europei”, ha sottolineato Andrea Ammon, direttore Ecdc. Bisogna perciò spingere nelle campagne di prevenzione, coinvolgere le persone e invogliarle ad usare il preservativo, come unico ‘scudo’ in grado di proteggerci da questa malattia.

I nati dopo il 1942 a rischio obesità

L’anno di nascita di una persona potrebbe rendere possibile prevedere se andrà incontro a problemi di obesità: gli specialisti hanno infatti scoperto che l’anno di nascita influenza l’attività di un gene legato allo sviluppo di questa patologia. Persone che presentano la mutazione di un gene chiamato FTO – anche detto gene dell’obesità – tendono di più a diventare obese se nate dopo il 1942.

Un recente studio ha dimostrato che le persone che presentano questo gene sono più tendenti a mangiare cibi grassi o contenenti molte calorie durante l’invecchiamento. Così, pare che l’anno di nascita possa andare a incidere sul gene, nel senso che un nato 20 anni dopo i suoi genitori può avere un indice di massa corporea maggiore.

Le evoluzioni al livello culturale, poi, come l’incremento degli strumenti tecnologici e la maggiore disponibilità di cibo potrebbero costituire ulteriori fattori aggravanti, andando a riattivare il gene in questione: volendo indagare l’impatto dei geni sullo sviluppo dell’obesità, i ricercatori hanno analizzato il rischio dell’obesità attraverso le generazioni. Perciò, quello che hanno cercato di scoprire è stato se le diverse condizioni vissute da ciascuna fascia di età possano alterare l’espressione della variazione del gene FTO in questione. Le informazioni utilizzate erano relative alle sequenze di DNA di più di 10.000 genitori, bambini e nipoti. Pertanto, i ricercatori sono riusciti a individuare un nesso tra il gene e l’obesità in quanti fossero nati dopo il 1942.

Gli autori dello studio suggeriscono che fattori legati al Secondo Dopoguerra come l’abitudine sempre più radicata alla tecnologia piuttosto che al lavoro manuale e la larga disponibilità di cibi ad alto contenuto calorico immessi sul mercato possano essere stati delle componenti da non ignorare.